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Attraverso la pronuncia n. 651 del 12 gennaio 2023, le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno confermato la possibilità per il proprietario espropriato, il quale abbia usufruito del godimento del bene immobile per un tempo utile a usucapirlo (art. 1158 del c.c.), di riacquisire la proprietà dello stesso per usucapione, pur in presenza di una valida espropriazione per pubblica utilità, operata ex ante dalla pubblica amministrazione.

Secondo il Supremo Consesso, pertanto, la notifica di un valido decreto di esproprio al proprietario effettivo del bene immobile non è requisito idoneo ad impedire l’esercizio del possesso ad usucapionem da parte dello stesso, qualora la Pubblica Amministrazione non sia entrata successivamente nel possesso materiale ed effettivo del bene immobile.

Al fine di comprendere pienamente la pronuncia in commento, è necessario operare brevi cenni all’istituto dell’usucapione.
Trattasi, in particolare, di un modo di acquisto a titolo originario della proprietà, mediante il possesso continuativo del bene immobile o mobile per un periodo di tempo determinato ex lege.
I requisiti per un valido esercizio dell’usucapio sono individuati all’interno dell’ art. 1158 c.c., in base al quale sono necessari: il possesso (non è sufficiente la mera detenzione) continuo, ininterrotto, pacifico e pubblico del bene in oggetto; l’esercizio di un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale (non sono suscettibili di usucapione, difatti, i diritti personali); la continuità nel possesso ininterrotto per un arco temporale pari a 20 anni (o nei diversi termini indicati dalla legge); l’intenzione dell’interessato di esercitare un potere sulla cosa, in buona o mala fede (non è necessario, in tal caso, la buona fede del possessore).
La contestuale presenza dei requisiti di cui all’art. 1158 c.c. consente al possessore di acquisire, per usucapione, la proprietà del bene: ciò in quanto l’ordinamento giuridico preferisce dare priorità ai soggetti che realmente e praticamente si sono, nel corso del tempo, occupati del bene mobile e/o immobile, mettendolo a frutto e ricavandone utilità naturali o sociali. Pertanto coloro che sin astratto risultano essere i legittimi proprietari del bene mobile e/o immobile, soccombono rispetto a coloro che, nella pratica, hanno sfruttato e reso fruttifero lo stesso.

Alla luce delle caratteristiche dell’usucapione, ci si iniziò ad interrogare in giurisprudenza circa la possibilità di applicare l’istituto in esame anche in merito ai beni immobili che, sebbene in astratto validamente espropriati, erano, in concreto, lasciati nel possesso degli originari proprietari. Difatti, non di rado (ancora oggi) accade che la pubblica amministrazione, intenzionata a dar vita ad un’opera o progetto, espropri un bene immobile altrui, senza, tuttavia, procedere alla successiva immissione in possesso per ritardi burocratici. Di tal guisa, il bene resta nelle mani del proprietario originario, il quale continua ad utilizzare lo stesso in qualità di legittimo possessore (ossia, con l’animus possidendi).

Pertanto, con la sentenza in esame, le Sezioni Unite hanno messo un punto fermo su una questione che, per anni, ha impegnato tanto la dottrina, quanto la giurisprudenza.
In materia di usucapibilità del bene immobile validamente espropriato, due erano gli orientamenti contrastanti.

Secondo un primo filone giurisprudenziale, invero, “il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di diritto o di fatto con essa incompatibile e, qualora il precedente proprietario o un soggetto diverso continuino ad esercitare sulla cosa un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, la notifica [o conoscenza] del decreto ne comporta la perdita dell’animus possidendi, conseguendone che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso ad usucapionem, è necessario un atto di interversio possessionis» (in particolare, si fa riferimento a: Cass. civ., sez. I, n. 6742 del 2014; Cass. civ., sez. II n. 23850 del 2018).

Secondo un secondo filone giurisprudenziale, “in tema di possesso ad usucapionem, tanto il trasferimento volontario quanto quello coattivo di un bene non integrano necessariamente, di per sé, gli estremi del constitutum possessorium, poiché – con particolare riguardo ai trasferimenti coattivi conseguenti ad espropriazione per pubblica utilità – il diritto di proprietà è trasferito contro la volontà dell’espropriato/possessore, e nessun accordo interviene fra questi e l’espropriante, né in relazione alla proprietà, né in relazione al possesso. Ne consegue che il provvedimento ablativo non determina, di per sé, un mutamento dell’animus rem sibi habendi in animus detinendi in capo al proprietario espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, nel concorso delle condizioni di legge, il compimento in suo favore dell’usucapione (a ciò non ostando, tra l’altro, il disposto degli artt. 52 e 63 della L. n. 2359 del 1865) tutte le volte in cui alla dichiarazione di pubblica utilità non siano seguiti né l’immissione in possesso, né l’attuazione del previsto intervento urbanistico da parte dell’espropriante, del tutto irrilevante appalesandosi, ai fini de quibus, l’acquisita consapevolezza dell’esistenza dell’altrui diritto dominicale» (orientamento sposato, in particolare, da: Cass. civ., sez. II n. 5996 del 2014, n. 25594; Cass. civ., sez. I, n. 5293 del 2000).

Le Sezioni Unite, all’interno della sentenza in commento, hanno condiviso questo secondo orientamento, sia in relazione alle controversie soggette al regime previgente al T.U. degli espropri (D.L.vo 8 giugno 2001, n. 327), e sia in quelle soggette alle disposizioni del medesimo testo unico.



 

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